“Il Fair Play è una norma non scritta, è la legge morale che dà un’anima allo sport, facendone un’esperienza insostituibile, dal valore formativo innegabile per la vita in società” (Renè Maheu 1968).
Il Fair Play non arriva dal cielo come una grazia divina, deve essere impresso nella mente e dobbiamo sempre combattere affinché rimanga vivo.
Il successo è sempre misurabile, il Fair Play non lo è, il successo è l’aspetto tangibile mentre il Fair Play è l’aspetto invisibile: due poli opposti che si determinano reciprocamente, tanto più si allontanano l’uno dall’altro. Il che accresce il pericolo di una frattura: più l’aspetto visibile è l’unico dominante, più si prova il bisogno di rafforzare quello nascosto.
Non si può concepire lo sport senza regole, ma l’osservanza delle regole non si applica al Fair Play.
Ricordiamoci che lo sport non è solo prestazione fisica è anche e allo stesso tempo prestazione morale ed è proprio in questo che interviene il Fair Play.
Comandamenti come la Carta del Fair Play non bastano più, al Fair Play si può giungere solo con un atto personale di volontà, in quanto esso non è mai un semplice valore in sé, ma un modo di vivere.
Il Fair Play non nasce da teorie filosofiche chiuse in un cassetto, ma dall’incontro, dal dialogo, dalla competizione.
Il Fair Play non si decreta, deve nascere da sé e il suo valore si rivela considerando il suo contrario: l’atto sleale.
“Dichiarare che non è fallo”, sostituendosi alla decisione dell’arbitro, “affermare di aver toccato la palla con la mano”, nonostante che l’arbitro (che non ha visto) faccia continuare il gioco, “fermare la palla e di conseguenza il gioco” (anche se si può concludere indisturbati a rete) se un giocatore è a terra infortunato, “dichiarare al giudice di sedia che la pallina è fuori campo anche se è stata dichiarata dentro” non sono atti di Fair Play, sono buoni esempi nello sport e fanno parte dell’etica sportiva.